La nave da guerra Punica di Marsala

di Honor Frost

Un relitto eccezionale significa molto più che l’insieme delle sue parti lignee. Infatti, questa poppa di un’imbarcazione, estremamente ben conservata e priva di carico, presenta caratteristiche uniche e ricche di implicazioni. Durante lo scavo, alcune lettere dell’alfabeto fenicio-punico, dipinte sul fasciame di pino con inchiostro nero, apparvero chiaramente. Inoltre, le tavole avevano ancora il loro colore giallo originale, così come il “pagliolo” (i rami frondosi posati per proteggere il fondo dell’imbarcazione dalla zavorra) era ancora verde. Immediatamente, sia le lettere che il colore degli elementi lignei sbiadirono all’esposizione della luce e dell’ossigeno presenti nell’acqua, ma non prima di far focalizzare l’attenzione sulle condizioni chimiche che avevano permesso la conservazione del relitto e – per ragioni di “nazionalità” – sulla sua origine geografica. Di solito, il luogo dove le imbarcazioni marittime affondano non ha una grande importanza perché, diversamente dal naviglio fluviale, esse non portano con sé alcun indizio su dove e da chi furono costruite, o su quanti proprietari hanno avuto prima di naufragare. Ciò determina l’impossibilità di assegnare forme particolari degli scafi ad una ben determinata regione mediterranea. Di conseguenza, la nostra conoscenza dell’architettura navale antica rimane lacunosa.

Invece, la “nazionalità” della nave di Marsala è perfettamente chiara, dal momento che è stata scritta sullo scafo dai suoi costruttori; inoltre, essa naufragò quando era ancora nuova. La sua vicinanza a due porti fenici è pertinente, sebbene ciò talvolta causi confusione: a livello popolare, infatti, l’imbarcazione viene collegata alla più nota Mozia fenicia e non alla Lilibeo punica. Infatti il termine “punico” si riferisce al nome romano per gli ultimi fenici che si stabilirono nel Mediterraneo occidentale e che fondarono Cartagine. Tuttavia, il collegamento merita una qualche considerazione perché, da un punto di vista ambientale, entrambi i siti sono stati trasformati a partire dall’antichità in modo tale da influenzare la comprensione del relitto stesso. Nel 397 a.C. i Greci della Sicilia orientale navigarono all’interno della laguna e distrussero la città fenicia sull’isola di Mozia. Essa fu rimpiazzata sulla terraferma dalla città punica di Lilibeo (la moderna Marsala ) posta sul capo all’estremità meridionale della laguna. Successivamente, la laguna cessò di essere navigabile, perché gli isolotti rocciosi si unirono insieme separandola dal mare aperto (probabilmente a causa dell’allargamento dei depositi di sale che, qui come altrove, furono sfruttati dai Fenici). Non appena la secca divenne una lunga isola, Isola Lunga, il corso della corrente venne bloccato e la laguna si insabbiò, divenendo stagnante. L’altro nome dell’Isola Lunga, Isola dello Stagnone (l’isola della laguna stagnante) si riferisce a questo avvenimento. Inoltre, dopo che la corrente costiera principale non poté entrare in laguna, iniziò a diminuire la sabbia portata sulla punta verso mare dell’Isola Lunga e si andò formando una lingua di terra chiamata Punta Scario, al di fuori della quale fu ritrovata la Nave Punica.

Punta Scario fronteggia le Isole Egadi e, da queste, è raggiungibile con venti minuti di navigazione. Le Isole Egadi diedero il loro nome alla vittoria navale romana avvenuta nella mattina del 10 marzo del 241 a.C. e che pose fine alla Prima Guerra Punica. I reperti, l’epigrafia e le determinazioni al Carbonio 14 concordano nel datare l’imbarcazione a questo stesso periodo, mentre l’evidenza archeologica indica un collegamento con la battaglia stessa. L’architettura dell’imbarcazione e i reperti mostrano che non si tratta di una nave mercantile, ma di un tipo di imbarcazione da guerra ausiliaria, forse una Liburna, costruita in poco tempo. Dopo la battaglia il vento cambiò di direzione, così che sul far della sera, le imbarcazioni superstiti avrebbero potuto cercare riparo sulla spiaggia più vicina ancora in mani puniche… la presenza di altri relitti all’esterno di Punta Scario suggerisce che così fu. Il breve sondaggio che fu condotto sulla “Nave Sorella” (a soli 40 metri di distanza dallo scavo principale) rivelò la struttura lignea di un rostro “a becco” con una lettera fenicio-punica dipinta.Fu nel 1969 che Diego Boninni, il capitano di un draga che lavorava al di fuori di Punta Scario, diede la notizia della presenza di legno sepolto appartenente ad imbarcazioni antiche. Seguì una ricerca archeologica e, nel 1971, il movimento del banco di sabbia espose (mettendo così in pericolo) la poppa della “Nave Punica”; lo scavo di salvataggio iniziò immediatamente e continuò per quattro campagne annuali.

Sott’acqua, il fondale di Punta Scario è mobile: le tempeste invernali spostano banchi di sabbia, mentre la caduta stagionale di Posidonia forma alti mucchi di foglie sulla spiaggia che, marcendo, emettono solfato di ferro dall’odore caratteristico; in mare, le foglie in decomposizione rimangono intrappolate attorno a ostruzioni quali i relitti, formando gradualmente strati compatti di foglie e sabbia alternati. In questo modo, si producono le condizioni chimiche favorevoli alla conservazione della materia organica (ma non dei metalli).

Il fatto che lo scafo della Nave Punica fosse nuovo e la fretta del suo varo furono evidenti dalla freschezza dei colori e dai segni degli attrezzi e, cosa ancor più strabiliante, dalla condizione del mastice che fu usato per riempire ogni piccolo vuoto occorso nel momento in cui le ordinate furono inserite nel guscio di tavole dello scafo. Questo mastice non ebbe il tempo di indurirsi poiché alcuni ramoscelli frondosi e pietre di zavorra, posizionati al di sopra in stretta successione, rimasero imprigionati in esso. Inoltre, mentre questo accadeva sul fondo dell’imbarcazione, i carpentieri stavano lavorando sulle sue sovrastrutture. I trucioli e le schegge di legni rari utilizzati per questi elementi sono stati ritrovati mescolati con la zavorra e il pagliolo. Lo studio della scrittura lasciata dai costruttori ha rivelato le tracce di due sequenze alfabetiche, insieme a marchi incisi di tipo più usuale; ciò dimostra che la forma dello scafo dovette essere concepita prima della sua costruzione. Inoltre, una delle lettere fenicio-puniche fu scritta da mani diverse. Da ciò si deduce che lavorarono alla costruzione della nave numerosi carpentieri dotati di un livello di allitterazione ancora oggi sorprendente in cantieri navali tradizionali del Mediterraneo. Il contenuto di questo relitto contrasta con quello delle antiche navi da carico. Queste compivano viaggi regolari. Di conseguenza, caricavano grandi contenitori per conservare l’acqua, macine e mortai per preparare gli alimenti, grandi vasi per la cottura e ami da pesca per procurarsi l’unico tipo di cibo fresco disponibile. La Nave Punica non ha restituito alcuno di questi oggetti, a parte piccole coppe e scodelle per porzioni singole, mentre i liquidi erano conservati in anfore di forme diverse. Ancor più inaspettatamente, sono stati ritrovati resti di cibo tra cui vari tipi di carne (attestata da ossa con segni di macellazione). Dopo lo scavo, i resti in legno dello scafo furono conservati (con il PEG); poi, dal 1978, furono assemblati a Marsala in un edificio storico a Capo Lilibeo (Boeo) che è divenuto in seguito un Museo Regionale. Il prossimo progetto è quello di spiegare sia l’imbarcazione che il suo contenuto in un nuovo allestimento della sala espositiva.

Lo scavo

In seguito ad una richiesta delle Autorità Siciliane, la British School di Roma incaricò Honor Frost di dirigere lo scavo, che era sotto il patronato di Sir Mortimer Wheeler (British Academy), Dr Richard Barnett (British Museum) e altri. I risultati furono pubblicati annualmente sulla rivista International Journal of Nautical Archaeology (London e New York). Non appena il lavoro in cantiere giunse a conclusione, un rapporto completo venne pubblicato dall’Accademia Nazionale dei Lincei (Roma) come supplemento a Notizie degli Scavi di Antichità XXX, 1976. Il lavoro sul campo venne portato avanti da una squadra internazionale con conoscenze estese dall’ingegneria all’architettura navale. L’ingegnere Peter Ball rimase capo immersioni dal principio alla fine. Gli archeologi erano: il defunto Prof. William Culican (Università di Melbourne); Dr. John Curtis (British Museum) e l’epigrafista Prof. William Johnstone (Università di Aberdeen). La provenienza delle pietre di zavorra è stata identificata dal Prof. Georges Mascle (Grenoble); le ossa dal Dr. François Poplin (Musée d’Histoire Naturelle, Paris) e le piante dal laboratorio dei Royal Botanic Gardens (Kew). I finanziamenti sono giunti da numerose istituzioni accademiche europee e americane. A Marsala, l’aiuto non venne mai meno. Il Dr. Pietro Alagna contribuì da un punto di vista logistico sia durante lo scavo che, successivamente, per il funzionamento del laboratorio di conservazione.

Traduzione: Giulia Boetto

Fonte: http://www2.rgzm.de/Navis/Ships/Ship056/NaveMarsalaItalian.htm


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